Cibo e gastronomia nel romanzo "I promessi sposi"


"I promessi sposi" di Alessandro Manzoni è indubbiamente tra le opere italiane più conosciute e studiate, non solo dal punto di vista letterario ma anche storico e sociale, documento di un'epoca con le sue contraddizioni, miserie, lotte e sofferenze. Il cibo è presente nel romanzo? Se si, che valore assume?
Senza dubbio il cibo e il mondo gastronomico sono molto presenti, anzi, rivestono un ruolo importante nel definire i personaggi, gli usi di un epoca e le differenze tra i ceti. Un discorso molto articolato e complesso quindi, in cui il mondo alimentare è presente e importante, anche quando in realtà è assente. L'affermazione fatta appare quasi un ossimoro, in realtà la sua mancanza e la fame non definiscono solo determinati ceti sociali ma inquadrano in modo preciso un determinato periodo storico.


(Francesco Gonin, L'oste, XIX secolo)



Nell'opera di Manzoni la fame viene affrontata in un modo nuovo, come un problema da risolvere o, per meglio dire, una situazione da migliorare. Questo aspetto presente non solo nella società italiana ma anche di altri Paesi, nell'opera non viene affrontato con tono denigratorio o sarcastico, caratteristiche tipiche invece di molti altri autori. La mancanza di cibo non ha solo valore alimentare (che non sarebbe poco), ma assume anche e soprattutto valenze sociali e morali molto importanti, divenendo denuncia e documento allo stesso tempo e, potremmo osare, veicolo per svegliare le coscienze sopite.
Gli episodi narrati attorno alla carestia e alla rivolta del pane, per esempio, sono profondamente emblematici non solo di una società ma anche della sua capacità (o assenza) di affrontare le sciagure e i momenti critici. A tal proposito tragici e significativi sono i risvolti negativi: i pani confezionati con farine scarsamente adatte alla panificazione, le morti di fame dovute ad un'assenza di cibo oppure per aver consumato prodotti non idonei all'alimentazione umana; drammatica la scena dei morti per le  strade con in bocca l'erba!.


(F. Gonin, Il cappone sul fuoco, XIX secolo)


Nel romanzo poi sono presenti numerosi alimenti poveri, un esempio su tutti è il cavolo verza, simbolo di un territorio e della sua cucina ma anche una valida riserva di cibo che resiste nel campo ai rigori invernali ed alle gelate, oltre a essere ingrediente principe in molte preparazioni contadine del Nord. La cassoeula è sicuramente un esempio importante e gustoso di quanto appena esposto.
Un altro alimento che non può non essere menzionato è la polenta, quando nel racconto Renzo entra nella cucina di Tonio, vicino di casa di Lucia, lo trova intento a rigirare questo cibo. Un alimento caratteristico di determinati ceti sociali, con tutte le problematiche storiche, culturali, antropologiche e nutrizionali che ne derivano. Occorre però fare una precisazione molto importante: la polenta preparata e presente nella narrazione non è come la conosciamo noi oggi, ma una polenta bigia, ovvero di grano saraceno o, più probabilmente di altri "grani inferiori"; una modalità di produzione e di sostentamento che sarà poi sostituita dal mais con il suo avvento nelle campagne italiane. Una fondamentale fonte per il sostentamento, nel romanzo infatti si precisa che Tonio non vedeva l'ora di riavere la collana d'oro della moglie, data in pegno a don Abbondio in cambio del prezioso alimento.


(Francesco Gonin, Perpetua e don Abbondio, XIX secolo)



Emblematiche sono anche le pietanze consumate da Renzo nel suo peregrinare: stufato e polpette, tutte e due associate alla cucina povera. La prima era una preparazione costituita dalla cottura prolungata di pezzetti di carne duri (per i ceti poveri questa era la realtà) che si intenerivano e potevano essere gustati; tipica offerta delle locande. Poco diverse concettualmente sono le polpette, fortemente collegate all'arte del riciclo e di utilizzo di avanzi che triturati, mescolati e tenuti assieme da un uovo o da un altro elemento legante, potevano sfamare senza sprecare.
Nel romanzo è possibile trovare però anche i cosiddetti "cibi delle feste", un esempio su tutti è il cappone bollito che la moglie del sarto cucina in un giorno del tutto particolare: la visita pastorale dell'arcivescovo. E' in questa occasione che la donna offre a una Lucia stanca e provata il brodo del pregiato volatile, accompagnato da qualche fetta di pane bianco. Una pietanza molto particolare, che non veniva offerta a tutti, ma era riservata alle puerpere, ai malati oppure ai bambini cagionevoli. Sotto questo aspetto merita anche una precisazione il ruolo culturale e sociale del bollito, metodo di cottura tipico dei ceti sociali bassi. Anche in questo caso, infatti, la preparazione appena citata si inserisce nella cultura del riciclo in cui niente andava perso, nemmeno il brodo, aspetto che di certo non era consono a un signore.
Stili alimentari, pietanze, riti e modi di nutrirsi che collimano con il potente don Rodrigo e, di riflesso, con i gusti della nobiltà dell'epoca.
Non mancano infine alimenti dai doppi significati: nel decimo capitolo, per esempio, la Madre Superiora offre a Gertrude (la futura Monaca di Monza) una tazza di cioccolata calda con lo scopo di alleviare il duro impatto con la rigida vita convenutale. Questo alimento per molto tempo sarà simbolo di prestigio sociale, lusso, esotismo, ma soprattutto vezzosità e stimolo sensuale, caratteristiche queste ultime che, come tutti sappiamo, accompagneranno la vita della famosa monaca.
Aspetti del cibo inediti, poco conosciuti o sottovalutati che, analizzati con attenzione, ci offrono uno spaccato alimentare e gastronomico molto vivido e complesso, un vero documento di un'epoca e del suo rapporto con il cibo.


(Francesco Gonin, I capponi, XIX secolo)


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