Il cibo nella Divina Commedia.

"Grosse lamprede, o ver di gran salmoni, aporti, lucci, sanza far sentore. La buona anguilla non è già peggiore; alose o tinche o buoni storioni. Torte battute o tartere o fiadoni: queste sono cose da acquistar mi'amore, o s'è mi manda ancor grossi cavretti, o gran cappon..."

Così è scritto ne "Il Fiore", poemetto di 232 sonetti in volgare che gran parte della critica attribuisce alla produzione dantesca degli esordi. Già in quest'opera è ben visibile la presenza del cibo nei componimenti di Dante. Le funzioni che esso assume tuttavia sono diversificate a seconda delle varie opere e, all'interno di esse, di varie tematiche. Nella Divina Commedia tuttavia esso assume prevalentemente un'accezione negativa divenendo strumento di realizzazione di una condizione peccaminosa che si traduce nel cedimento ai piaceri del cibo e quindi al tanto temuto peccato di gola. Per capire come questo peccato fosse considerato grave nella mentalità medievale è utile ricordarsi dell'accesso al cibo che avevano i vari ceti. Per secoli la compagna fedele dei ceti bassi fu la fame, mai placata che, se da un lato si traduceva in lode perfetta a Dio e piena vicinanza a Lui, nella vita di tutti i giorni era un problema molto grave che portava anche alla morte. Diversa era la situazione per i ceti elevati presso i quali la manifestazione del potere e delle disponibilità economiche passava anche e soprattutto dalla tavola. Proprio presso di essi la gola regnava e seminava i propri frutti velenosi; secondo i dottori della Chiesa tale peccato si consumava in cinque modi: "mangiando fuori tempo, molto frequentemente, ricercando cibi prelibati, con soverchia avidità, esagerando nei condimenti". Le conseguenze a tutto ciò, come prevedibile, si traducono nelle pene inflitte nell'Inferno e nel Purgatorio. L'opera invece in cui è più rappresentata l'immagine del banchetto, sia nelle sue caratteristiche materiali che in quelle simboliche è il Convivio scritto tra il 1304 e il 1307 in cui viene sviluppato il pensiero del banchetto come una mensa di sapienza, tematica cara alla tradizione platonica e biblica.
Tornando al tema di questo articolo, il cibo è presente in diverse forme nella Divina Commedia.
Nell' Inferno non è solo il cibo a rientrare nella pena ma anche i diversi aspetti che caratterizzano il mondo gastronomico. In un certo senso l'atto del cucinare diventa veicolo di somministrazione della pena ai dannati. Nella quinta bolgia  i barattieri, speculatori fraudolenti di cose e cariche pubbliche a fini di lucro personale vengono tenuti sotto la pece bollente. "Non altrimenti i cuoci a lor vassalli" e continua "... fanno attuffare in mezzo la caldaia, la carne con li uncin, perché non galli ..." (XXI, 55-57). Questa scena delinea bene l'immagine dell'inferno (o comunque di una parte di esso) come una grande cucina dove i diavoli, mostruosi cuochi, intimano ai loro sguatteri di immergere bene la carne dei dannati affinché non affiori e cuocia quindi perfettamente.


Scene simili sono descritte in altri punti: i violenti verso il prossimo nella persona e negli averi, per esempio, vengono definiti "bolliti" perché cotti nel sangue.
Queste e altre scene ci permettono di identificare un inferno molto particolare, dove le pene non sono solo mezzi di cottura ma anche altre tecniche come la macellazione o la preparazione di gelatine. Gli atti e gli utensili utilizzati che rimandano come già detto ad un tipico ambiente di cucina, svelano come esso sia stato una grande fonte d'ispirazione per il grande maestro.
La presenza dell'aspetto alimentare è presente anche nel Purgatorio. Qui lo sbigottimento delle anime espianti, appena sbarcate sulla spiaggia, viene paragonato alla degustazione di una nuova pietanza "La turba che rimase li, selvaggia parea del loco, rimirando intorno come colui che nove cose assaggia... " (II, 59-54).


La golosità (e quindi le pene da scontare), non risparmia proprio nessuno, nemmeno il Papa; "dal torso fu, e purga per digiuno l'anguille di Bolsena e la vernaccia ..." (XXIV, 23-24), indicando non solo la ghiottoneria di Martino IV ma anche la punizione per questo grave peccato: il digiuno e quindi la privazione di tutte le cose buone.
Nel Paradiso Dante torna ad utilizzare il cibo come metafora; le schiere celesti vivono di "pan degli angeli" (II, 11) cioè della contemplazione mistica, insieme ai beati e ai santi che si nutrono simbolicamente dei misteri divini, gustandoli in banchetti e mense celesti. In questo caso la ghiottoneria è lecita perché è una golosità di beatitudine.
Nel regno delle glorie celesti oltre al cibo, come si è visto, l'atto del banchettare non è più fonte di peccato e quindi veicolo di perdizione ma premio per una vita retta e pura; l'atto del nutrirsi viene elevato ad un gesto spirituale importantissimo che i commensali compiono alla presenza di Dio e a cui tutti siamo chiamati a partecipare (ovviamente se meritato).
Il cibo quindi lascia il suo mero ruolo di nutrimento e si riveste di significati, riti e simboli. Tutto ciò è un esempio di come esso sia da sempre importante nella vita dell'individuo e in ogni aspetto delle varie società.

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